"Ama e fa' ciò che vuoi".

S. Agostino

mercoledì 28 novembre 2012

Tempeste, silenzi


Scrivere... non è mai stato così difficile.
Scegliere le parole, accostarle con cura le une alle altre, sistemare le virgole al posto giusto, in queste settimane è stato davvero molto complicato. Colpa di una burrasca più forte del solito, di un momento di disagio acuto che ha intaccato anche l'unica cosa che sapevo, che so, di poter fare bene: mettere insieme parole. Ci sono stati giorni in cui anche scrivere la relazione di un incontro è stata un'impresa titanica e questo mi ha messa ancora più in crisi. "Ma come? Una relazione è facile, basta stare attenti a non fare ripetizioni e a segnare tutte le sottosezioni presenti! Non sono necessari voli pindarici, metafore o similitudini per catturare l'attenzione del lettore, è solo un documento!" Lo so, eppure... il foglio di lavoro del computer rimaneva sempre bianco (e non perchè non sapessi cosa dire... c'erano pagine e pagine di appunti!), non c'era verso di vederlo annerirsi decentemente. Ho dato la colpa all'università, all'essere più in treno che a casa, agli "impegni istituzionali" che spesso si sono sovrapposti. La verità è che qualche cosa di più insospettabile e profondo stava, sta ancora, sovvertendo il mio ordine costruito con fatica. "Ci sarà sempre qualche cosa che sfuggirà alle classificazioni e te la dovrai cavare da sola"... Me lo avevano detto i Lele e il pangolino! E' stato questo il motivo della mia assenza, del periodo di silenzio del mio Vasetto, che però nell' "al di qua" del computer è stato fin troppo rumoroso, come la confusione prima delle prove, quando oguno suona da solo.
In questi giorni ho partecipato ad uno dei miei soliti incontri di formazione per l'associazione e prima di ripartire i referenti mi hanno chiesto di redigere un "diario emozionale" che raccontasse i momenti appena vissuti. Tempo a disposizione per scrivere: meno di due giorni. Inizialmente ho detto di no (cosa avrei mai potuto tirare fuori, dato che non riuscivo a combinare niente neanche con le relazioni?) ma loro hanno insistito tanto e alla fine mi hanno strappato il sì di bocca. L'impegno del diario mi ha costretta a fermarmi un attimo e a pensare a qualcosa di concreto, mi ha "rieducata" allo scegliere le parole con cura. Il lavoro che ho spedito non mi piace molto, non mi convince nonostante le infinite riletture e le infinite consultazioni al dizionario dei sinonimi e dei contrari, ma rappresenta pur sempre un primo passo verso il sereno. E' questo, al di là del contenuto, il valore che ha per me. Avete presente il quadro "La zattera della Medusa" di Gericault? Ecco, la loro richiesta è stata la spinta a volgere lo sguardo verso il pezzettino di costa che si vede in lontananza. La tempesta non è certamente conclusa (anzi!), ma il ricominciare a riprendere in mano lettere e segni di punteggiatura è una grossa conquista. La strada verso il sereno, per me, comincia dalla scrittura.  

giovedì 1 novembre 2012

Osservazioni antropologiche: il passo veneziano


Il mio professore di antropologia direbbe che prima di formulare delle teorie bisogna vivere sul campo per molti mesi, prendere molti appunti, rielaborarli con cura. Direbbe che per comprendere a pieno un popolo non si studiano subito i suoi sistemi di credenze, i suoi riti, ma si comincia dai gesti quotidiani, dal modo con cui le persone si salutano quando si incontrano, ad esempio.
Io dopo un solo mese di vita lagunare sono pronta a dare al mondo dell'antropologia il mio contributo.
Tema: il passo veneziano.
Un veneziano si distingue da un turista perché non cammina con gli occhi verso l'alto, non gira la testa continuamente, non guarda altrove: il suo sguardo è puntato dritto nella direzione in cui deve andare, alla fine di una calle, dall'altra parte di un campo, all'imbarcadero del vaporetto... Il veneziano non guarda che dritto davanti a sé. Il veneziano sa esattamente dove deve andare. Anche se non lo sa. Il camminare veneziano nasce quindi dagli occhi: la certezza della direzione si concretizza nelle gambe. Il suo è un passo non troppo ampio, ma ben disteso, ritmato, veloce: il veneziano ha fretta, sempre: deve prendere il vaporetto, deve andare al mercato, deve andare in terraferma: non ha tempo di perdersi in chiacchiere lungo la strada. Non importa quale calzatura abbia ai piedi (infradito, stivale, ballerina, decolteé, scarpone...): il suo andare non subirà variazioni. Il suo passo, quindi, non si ferma davanti a niente, né ai turisti, né ai piccioni, né ai carri con le merci, né all'acqua alta. Rallenta solo se davanti a sé vede il pericolo di essere buttato dentro ad un canale e ha un grande rispetto per i ponti, che attraversa posando il piede su tutti i gradini. Il veneziano non è sborone, sa che dovrà camminare ancora per molto e non ci sono altri mezzi con cui raggiungere la meta se non le sue gambe. Il passo veneziano si può acquisire, infatti si notano spesso gli studenti sfrecciare dalla mensa alle aule, dalla biblioteca al vaporetto, ma quello più autentico rimane proprietà delle gambe dei veneziani doc di tutte le età: anche nelle signore più anziane si può scorgere il guizzo del passo tipico. Nonostante il suolo ideale del piede che procede in questo modo siano i maségni (la pavimentazione tipica di Venezia) il passo veneziano approda anche sull'asfalto e i sanpietrini della terraferma. Chi vive o studia o vive e studia a Venezia, oltre all'odio sviscerale per i piccioni, esporta al di là di Ponte della Libertà il passo veneziano e chiunque tenti di camminare con lo stesso ritmo del veneziano (vero o d'adozione) sarà costretto, inevitabilmente, a chiedere di rallentare. (Al liceo avevo una prof laureata a Venezia e nessuno di noi riusciva a starle dietro. Oggi io sarei in grado di avere una conversazione con lei che duri almeno mezzo chilometro).
Conclusione: la camminata di un veneziano dà più informazioni della sua carta d'identità.