"Ama e fa' ciò che vuoi".

S. Agostino

sabato 20 luglio 2013

Orfano di figlia




[fonte foto: web]



Stavo uscendo dalla mia biblioteca, ero ancora inebriata dal profumo familiare dei libri e avevo il telefono in mano, pronta per l’ormai quotidiano messaggio a Rob e Collega. Ero persa tra i miei pensieri, elencavo tra me e me le cose che avrei fatto durante il giorno e ho respirato l’estate della mia città. E’ stato allora che l’ho visto. Era lì, davanti a me, seduto su una panchina dall’altra parte del cortile interno dello stabile. Ha alzato lo sguardo anche lui. Mi ha vista. Mi sono girata e ho inforcato gli occhiali da sole. Non ci vado, tanto non mi ha riconosciuta… sono così cambiata dall’ultima volta. Ho percorso con passo sicuro il porticato fino all’uscita, a metà tra me e lui. Però poi ho capito di avere un conto in sospeso con la bambina che è in me e ho esitato. Mi sono avvicinata e l’ho salutato. Era sorpreso di vedermi e mi ha detto che è stato contento di ricevere il mio biglietto con tutte quelle cose scritte. Sembrava così vecchio, anche se ci sono uomini che alla sua età hanno ancora molto da dire. Camicia e pantaloni larghi, sandali ai piedi. Sembrava trascurato. E i capelli con il gel sistemati male, il viso così gonfio, i denti marci, gialli, la voce troppo stridula e troppo forte, gli occhi troppo piccoli dietro gli occhiali. Sembrava un orfano. Orfano di figlia non si dice, ma lui sembrava proprio un orfano di figlia. Ho pensato a suo padre, ma le due immagini non si incastravano. Non si sovrapponevano nemmeno. Mi sono sentita così lontana, così forte, così diversa. In quel momento ho notato che si era sistemato sulla panchina nello stesso modo in cui lo faccio io: di lato, poggiando sulla parte libera borse, sporte, libri. Ho pensato a Saba e allo sguardo azzurrino. Mi sono sentita vuota e piena contemporaneamente. Vuota perché ancora quello che avevo davanti non coincideva con l’immagine di uomo che ancora avevo in mente e piena perché grazie a quel vuoto io sono diventata quel che sono: assetata d’affetto, fragile come gesso, nonostante tutto fiduciosa della bontà di chi incrocia la mia via. Mi sono sforzata un po’ per guardarlo, è brutto da dire, ma è stato così. Gli ho chiesto della madre, mi ha chiesto di sedermi accanto a lui. “No, ho tante cose da fare…” Non era vero. I programmi erano saltati tutti, avevo solo un messaggio da spedire e una telefonata da fare. Me la sarei cavata in cinque minuti. “… io devo proprio scappare”. Non ho sollevato gli occhiali da sole. Non gli ho ho permesso di vedere i miei occhi verdi. Verdi come quelli di sua madre. L’ho salutato e me ne sono andata. Mi sono sentita i suoi occhi addosso fin quando ho svoltato l'angolo. Occhi di padre che non sa dove stia andando sua figlia, con chi, perché. Occhi di padre che non sa chi sia sua figlia.

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